A tutte le janare che ancora oggi confondendosi tra le donne sannite operano di nascosto nel bene...
Il racconto di questo sabato e' intitolato "La pazzia del cardinale", un racconto avvincente che attira l'attenzione del lettore che e' accompagnato nei tempi bui della Santa Inquisizione quando le donne definite streghe venivano mandate al rogo. Gli autori, Luca De Lipsis e Giuseppe Palmieri, ambientano il nuovo scritto di "Sotto il sole" nella Benevento del Papa Re
Nostro servizio
Via libera da un punto di vista editoriale al prosieguo della rubrica curata da Luca De Lipsis e Giuseppe Palmieri, due autori beneventani.
Tutti i dubbi sono stati fugati da un interesse inaspettagto di cui ha goduto il primo racconto breve, "L'artista smarrito" dello scorso sabato, che ha superato le 2.800 visualizzazioni.
Andiamo avanti, dunque, nella convinzione che i lettori anche dei quotidiani d'informazione online sono amanti delle proposte letterarie intelligenti e spendibili.
Questo sabato pubblichiamo la prima parte di questa nuova avventura che ci propongono De Lipsis e Palmieri.
Buona lettura.
LA PAZZIA DEL CARDINALE A tutte le janare che ancora oggi confondendosi tra le donne sannite operano di nascosto nel bene
Prima parte
La donna era legata mani e piedi a una sedia, mentre ai suoi lati, in piedi, due grossi ceffi incappucciati proseguivano con le loro torture per farla confessare.
Uno brandiva una grossa frusta macchiata di sangue con cui, dopo averla fatta volteggiare nell'aria, colpiva ripetutamente il corpo martoriato della malcapitata.
L'altro era pronto a sollevarle la testa bagnandola dentro una bacinella d'acqua fredda, ogni qual volta la sventurata, stremata dalle frustate, esanime inclinava il capo in avanti.
Alle spalle della prigioniera, seduti su una rampa che delimitava le navate della cripta, due uomini assistevano a quelle crudeltà con stati d'animo diversi.
Vestito di una toga scura ornata di un colletto bianco, l'uno si copriva il volto con le mani. L'altro, in abito talare, a ogni scudisciata dell'aguzzino, con un atteggiamento sdegnoso e sprezzante, ghignava dando un segno di assenso a tale supplizio.
La cripta dove si svolgeva il processo era una stanza rettangolare con volta a botte.
Ai lati si trovavano ambienti più angusti dove si potevano venerare le reliquie dei Santi della Chiesa, custodite in apposite teche.
Al centro della cappella vi era una cattedra, dietro la quale erano seduti un giudice laico, rappresentante della Santa Inquisizione, un giudice togato, rappresentante dell'autorità civile e tre giurati, cittadini influenti di provati costumi morali.
Tutte le testimonianze erano annotate nel verbale di udienza redatto da un notaio.
Erano trascorsi più di trenta minuti dall'inizio della seduta, ma la donna, di fronte alle accuse del prelato, aveva sempre negato ogni coinvolgimento.
Nonostante ciò, le prove erano tutte a suo carico tanto che una condanna capitale appariva sempre più certa.
Le testimonianze da lei prodotte per sostenerne l'innocenza non erano state accettate dal giudice. Questi aveva ritenuto veritiere solo le imputazioni mosse dai delatori.
Tuttavia, anche sotto tortura, l'accusata continuava a proclamarsi innocente.
Stregoneria, l'accusa infamante attribuitale.
L'avevano vista banchettare con altre megere intorno a un falò, invocando l'anima del demonio per i loro malefici.
Inoltre, una donna incinta l'aveva incolpata di un sortilegio che avrebbe comportato la perdita del bambino che portava nel grembo.
La strega sarebbe stata spinta dalla gelosia per non avere avuto lei stessa un figlio da accudire. Il prelato aveva personalmente condotto le indagini, invitando tutti i testimoni al processo.
Essi, dopo aver riconosciuto l'imputata senza la minima esitazione, avevano riferito i fatti con estrema determinazione, così come, dal loro punto di vista, si erano svolti.
Al contrario, le due donne che si erano presentate a testimoniare in favore dell'amica erano state completamente screditate.
La loro fu ritenuta dall'accusa una testimonianza artificiosa, costruita con particolari poco attendibili al fine di corroborare la tesi ardita dell'innocenza della compagna.
Di fronte alle perplessità della corte, entrambe avevano alzato il tono della testimonianza, fino a esprimersi con urla feroci.
Il loro contegno fu ritenuto inappropriato dai presenti. Alcuni lo giudicarono sospetto. Furono invitate ad allontanarsi dalla cripta.
Al loro diniego, il giudice togato fece entrare due gendarmi, che le trascinarono via con la forza per farle uscire dall'aula.
L'imputata aveva ascoltato le testimonianze difensive sperando, in cuor suo, che potessero bastare a proclamare la sua innocenza.
Ma quando vide gli animi accendersi e i gendarmi entrare su ordine del giudice per allontanare le amiche, capì che non aveva più scampo. Nessun alibi avrebbe potuto garantirle la scarcerazione.
Disperata, le seguì con lo sguardo mentre venivano portate via e, quando non le vide più, scoppiò in un pianto a dirotto.
Alla fine, stremata dalle sofferenze patite e terrorizzata all'idea di subire torture ancora più feroci, si rivolse a quella corte di aguzzini, ammettendo di essere una strega, di aver partecipato ai sabba e di aver praticato maledizioni con unguenti magici e polvere ricavata dalle ossa di defunti.
Subito dopo la confessione, ormai svuotata nell’animo, emise una risata raggelante, dilatò gli occhi, ormai privi di espressione, e inclinò il capo, abbandonandosi sulla sedia della tortura. Tutti i presenti rimasero scossi.
Solo il cardinale, impassibile di fronte a ogni supplizio, mostrò un'espressione compiaciuta, come di vittoria.
Lo stesso invitò l'imputata a fare i nomi delle complici, affinché tutti i colpevoli fossero assicurati alla giustizia.
La rassicurò, affermando che, in cambio di un atto di pentimento, quella testimonianza avrebbe potuto spingere i giudici a mostrarsi più clementi.
La pena capitale poteva essere sostituita con una condanna più mite, scontata la quale la donna avrebbe avuto la possibilità di essere nuovamente accolta tra le braccia della Chiesa e salvare la propria anima.
Più volte l'inquisitore le chiese di ritrattare la propria posizione, ravvedendosi per aver tradito la fede cristiana, ma la donna si mostrò reticente a ogni richiesta.
Sembrava essersi completamente estraniata da ciò che la circondava.
Caduta in uno stato catalettico, non rispose ad alcuna esortazione. Rimase immobile in quella posizione innaturale, del tutto distaccata da quanto le accadeva intorno.
Ma tanto bastò al cardinale e ai giurati per decretare la fine della fase inquisitoria.
Il collegio si riunì per deliberare una condanna già scritta, seguendo un copione prestabilito, nel quale ognuno argomentò la propria tesi trovandosi d'accordo su ogni punto, senza il minimo confronto né esitazione.
Un perfetto connubio tra Stato e Chiesa, fondato su interessi comuni, che garantiva l'ordine pubblico e la preservazione dell'ortodossia.
Il cardinale argomentò la posizione accusatoria, evidenziando come l'imputata non solo avesse ammesso le proprie colpe, ma fosse anche reticente alla clemenza.
La mancata collaborazione non sarebbe servita a nulla, dal momento che l'inquisitore avrebbe condotto ulteriori indagini allo scopo di dare un nome a tutte le megere con cui la presunta strega aveva compiuto le malefatte.
Forte della sua posizione ecclesiastica il prelato fu ascoltato con estremo ritegno e mai furono messe in discussione le argomentazioni esposte.
Ben più complessa risultava la posizione dell'avvocato difensore, a cui avevano screditato anche le prove testimoniali.
Convinto che null'altro avrebbe potuto salvare la sua assistita si limitò ad ascoltare in silenzio la condanna che le avrebbero inflitto.
Il verdetto fu di lì a poco pronunciato: "Nella città di Benevento, addì 26 dicembre 1543, si è svolto il processo a Teresa di Marco Barbato, accusata di stregoneria e reo confessa.
Visti il diniego ad abiurare, la sua omertà a confessare i nomi delle complici, di fronte alle reiterate pratiche stregonesche messe in atto dalla setta di cui fa parte, l'imputata è condannata a morte tramite rogo alla presenza del popolo.
Sia disposta la confisca dei beni. In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo".
"Vi prego non voglio morire!", gridò la donna, rinvenuta dal suo torpore, provando a dimenarsi dai lacci che la tenevano fissata alla sedia, prima di essere consegnata al braccio secolare.
Il boia, su ordine del giudice, la slegò, la trascinò su in Cattedrale, attraversando la navata del Duomo.
In barba a qualsiasi regola civile, la condusse fuori dalla chiesa, al centro della piazza antistante, dove una folla numerosa attendeva di conoscere l'esito del processo.
Si trattava di un crimine eccezionale che meritava una condanna tanto crudele quanto dimostrativa.
Nello spiazzo erano state poste delle cataste di legna che circondavano un palo dove la condannata fu nuovamente legata tra urla strazianti.
Subito dopo, tra la folla, si aprì un varco che permise il passaggio del cardinale e dei giudici.
La sentenza fu letta dal prelato di fronte a una folla festante che gridava: "A morte, a morte la strega!".
Il messaggio doveva essere diffuso in ogni angolo del paese e questo il cardinale lo aveva bene in mente.
Bisognava coinvolgere tutto il popolo nella lotta comune tra il bene e il male.
Finito di leggere il sermone, il prelato ordinò al boia di appiccare il fuoco.
In pochi minuti, Teresa fu avvolta da fiamme e fumo, gridando anatemi alla volta del cardinale.
Il rito fu così truce che certe donne presenti si sentirono male.
Soccorse da alcuni contadini furono stese su dei calessi parcheggiati ai lati della strada.
L'immagine agghiacciante del corpo devastato dalle fiamme valeva più di qualsiasi ammonimento.
Le amiche della strega, prudentemente allontanate dalla piazza, piangevano sommesse.
L'unico che sembrava godere di tanta crudeltà era proprio il cardinale: travolto da un delirio di esaltazione, aveva gli occhi sgranati, diabolicamente brillanti di luce propria.
Sul grosso anello cardinalizio, infilato nell'anulare della mano destra, erano riflesse le fiamme della pira.
Una volta che il corpo della megera fu completamente carbonizzato, egli si rivolse con fare zelante ai due giudici che lo avevano assistito: "Grazie per i vostri servigi, la Chiesa vi sarà riconoscente. Io sono un uomo di Chiesa e come tale manterrò l'ordine e la disciplina in questo territorio infestato da delinquenti e da megere. Ma solo con il vostro aiuto potrò adempiere al mio dovere".
"Questi sono tempi bui, ma per fortuna abbiamo persone tenaci come voi che non chiudono gli occhi e non rifuggono dalla battaglia.
Solo così potremo scovare e portare in giudizio queste donne malvagie, annientando il potere del diavolo" rispose il giudice ecclesiastico, visibilmente scosso dalla scena crudele cui aveva assistito.
L'altro togato annuì con un cenno del capo.
Il cardinale rivolse poi lo sguardo all'avvocato, rammentandogli che anche le altre amiche di Teresa sarebbero state sotto osservazione.
Se avessero compiuto azioni riprovevoli avrebbero ricevuto lo stesso trattamento.
Soddisfatto dalla evoluzione degli eventi si congedò dai presenti, salì le scale del Duomo e si diresse verso l'episcopio.
Giunto nella sua stanza, si affacciò dalla finestra e osservò un casolare costruito di fronte al Duomo.
Era la casa della donna che era stata appena arsa, adesso confiscata dalla legge. "Un giorno abbatterò questa stalla e farò erigere una statua in mio onore" pensò soddisfatto mentre la cenere del falò era sospinta dal vento sopra i tetti delle case.
Il cardinale Anselmo Guia odiava le donne.
Le perseguitava. Godeva nel vederle soffrire. I suoi deliri misogini avevano origini lontane. Sin da quando aveva memoria aveva odiato la madre.
Non le aveva mai perdonato di essere morta dopo aver partorito la sorella.
Gli piaceva ricordarla per disprezzarla e inveire contro di lei.
Faceva questo per vendicarsi dell'abbandono di cui accusava la madre.
Un giorno, capì che non gli importava niente di lei. Non era più addolorato per la sua morte. Non gli interessava della sorella, né di nessun'altra donna. Gli piaceva solo arrecare loro dolore e sofferenza.
Per lui era un piacere vedere una donna soffrire, ancor più se per causa sua.
Da bambino fu affidato ai monaci per la formazione culturale e adolescente volle continuare quel percorso perché lo trovò congeniale alle sue esigenze, soprattutto per la sete di potere. Non trovò la pace in Dio.
La falsa giustificazione per imbastire il suo più spregevole progetto era divenuto un impegno costante.
Così, ogni volta che realizzava i suoi propositi con estrema soddisfazione, pensava a quanto fosse fortunato a poterlo fare con tale facilità, senza particolare impegno e per di più guadagnandoci.
Per lui, infatti, era un indubbio vantaggio essere un cardinale della Chiesa Cattolica, designato membro dell'Inquisizione Romana.
La caccia alle streghe divenne la sua caccia alle streghe.
Aveva, perciò, iniziato la propria battaglia contro di loro senza sottilizzare sulla possibilità di innocenza.
Quando furono istituite le sedi inquisitoriali locali, si fece designare come delegato in uno dei luoghi dove la questione eretica era maggiormente sentita, a causa di una diffusa dedizione al malefico e alla stregoneria.
Benevento, città delle streghe per antonomasia. E lui, da brillante oratore, buon conoscitore del latino e dello spagnolo, attento scrutatore delle vicende cittadine, aveva tutte le carte in regola per ergersi a paladino della Chiesa, magari aspirando al soglio pontificio e forse, un giorno, anche alla propria santificazione.
Per lui erano tutte colpevoli, colpevoli di essere streghe e, soprattutto, colpevoli di essere donne.
Talora si estraniava dalla realtà crogiolandosi al pensiero della donna successiva da accusare, da strappare alla vita, agli affetti, da torturare, pregustando il piacere di vederla bruciare.
Era, la sua, un'estasi diabolica dominata da immagini di roghi e di dolore. Nessuno sapeva o sospettava di lui o immaginava che tutto quello che faceva servisse solo per procurargli piacere.
E, ancora una volta, Anselmo Guia fantasticava di roghi e urla quando qualcuno bussò timidamente alla porta. Il cardinale lo invitò ad entrare.
"Avanti!" intimò. Sull’uscio della stanza comparvero le solite guardie che accompagnavano una giovane donna, vestita di stracci.
"Mio signore" disse il più anziano delle guardie "c'è qui questa contadina che vuole parlarvi. Dice di avere notizie importanti. Ha già provato con noi ma, in verità, ci sembra che dica cose strane".
"Fatela entrare e non disturbateci".
La voce e l'atteggiamento di Anselmo Guia incutevano timore e rispetto ma la contadina pareva determinata ad andare fino in fondo e non sembrò farsi intimidire.
Rimasta sola con il cardinale, non aspettò nemmeno il permesso di parlare e cominciò con sicurezza a raccontare la sua storia.
"Eccellenza, sono qui per dirvi una cosa che vi lascerà esterrefatto. Se non fosse che l'ho vista con i miei occhi, stenterei anche io a crederci".
Il prelato aggrottò la fronte perplesso, tuttavia la invitò a proseguire. "Ieri notte, mentre ero affacciata alla finestra di casa, ho visto Linda in groppa a un caprone.
Un grosso caprone che si dirigeva verso la campagna, in direzione del Ponte Leproso.
Così, incuriosita, sono anche io uscita di casa e l'ho pedinata senza farmi vedere. Ho seguito la direzione e sono giunta presso una radura, vicino al fiume Sabato.
Ho sentito delle voci, così mi sono nascosta dietro un cespuglio".
Il volto del cardinale esprimeva una crescente curiosità.
La donna, osservato l'effetto delle sue parole, proseguì: "Sul posto c'erano altre donne. Tutte insieme si sono strette le mani formando un cerchio e hanno iniziato a fare in coro delle invocazioni. Io guardavo e cercavo di comprenderne il senso. Ma non si capiva niente. Ballavano in circolo. Giravano intorno a un agnello steso in terra, morto in una pozza di sangue".
"Non è possibile" gridò il prelato improvvisamente rabbioso, "Linda non ha mai frequentato queste compagnie, non è dedita a riti stregoneschi. Ti sarai sbagliata".
"No, eccellenza" insistette la popolana, "tant'è che quando è finito il rito, l'ho seguita e sono arrivata fin sotto l'episcopio".
"Era buio, sei sicura che si trattasse proprio di lei e non di un'altra donna?"
“Se non mi credete domandateglielo. Altrimenti, domani sera venite insieme a me, così vedrete di persona e capirete che vi ho raccontato la verità.
Ho sentito con le mie orecchie che si sarebbero nuovamente incontrate per invocare l'anima del demonio".
"Donna, bada a quello che dici. Io non ti credo. Ora vattene subito prima che io inizi a dubitare della tua fede".
"Come desiderate eccellenza".
La contadina, risoluta, senza alcun timore, continuò: "Però voglio dirvi un'altra cosa: la mia vista è perfetta come quella di un'aquila. Datemi ascolto. Io vi ho avvertito".
Senza un cenno di saluto se ne andò lasciando il cardinale perplesso e angosciato.
"Linda!" ripensò l'alto prelato "non può essere lei, la conosco da troppo tempo. Non posso credere a un racconto del genere. Linda! L'ho accolta ancora bambina nella mia dimora. E' mai possibile che in dieci anni non mi sia mai accorto di nulla?"
Così rimuginava il cardinale, passeggiando nervosamente su e giù lungo la stanza.
Nella mente si formava l'immagine di Linda con la sua bellezza apparentemente innocente e profondamente sensuale. "E se fosse vittima di un maleficio? E se, invece, mi nascondesse qualcosa?"
Senza più esitare il prelato, confuso, uscì di corsa dai suoi alloggi e si diresse verso l'appartamento di Linda.
Giunto di fronte alla porta l’aprì. Varcò l’uscio. Linda era seduta a ricamare.
Quando lo vide scattò in piedi e gli corse incontro. Lo abbracciò stringendolo forte a sé e gli domandò il perché di quella visita inaspettata.
"Ero venuto a salutarti", rispose il prelato mentendo, "avevo bisogno di vederti".
Ma gli bastò imbattersi nello sguardo ammaliante della fanciulla, rivederne il sorriso sgargiante, e tutti i dubbi lasciarono il posto a desideri più carnali.
Soggiogato, senza perdere altro tempo, si avvinghiò a lei e la condusse nella stanza da letto.
L'inattesa passione gli diede vigore, creando quella consueta intimità in cui amava perdere i propri sensi.
Lei sospirò e lo fece fare, travolta da quel reciproco piacere.
Lui iniziò a spogliarla e, dopo averla denudata, avvicinò le calde labbra al viso della donna.
Ogni volta che la baciava veniva inebriato dal profumo intenso che emanava la sua pelle, così forte da impregnare i vestititi e le lenzuola del talamo.
Non esisteva ora del giorno o della notte che non avvertisse l'odore di quella flagranza, persino durante le funzioni cardinalizie.
Fecero l'amore fin quando non si esaurì il desiderio di entrambi.
Lui, finalmente pago, si addormentò esausto, ancora avvolto in viso dai folti capelli della ragazza.
Si risvegliò che era quasi mezzanotte. Linda stesa di fianco a lui lo stava teneramente accarezzando.
"Quanto tempo ho dormito?" le chiese ancora frastornato.
"Tanto mio signore, ma eri così stanco che non ho voluto svegliarti" ribatté la ragazza.
Il cardinale scese dal letto e velocemente si rivestì dicendo di dover tornare nella propria dimora per i numerosi impegni che lo avrebbero occupato il mattino successivo.
Linda non osò trattenerlo. Il suo uomo le aveva manifestato la passione di sempre, eppure aveva percepito una violenza inconsueta nel loro rapporto, di solito tenero e appassionato.
Immaginando che tutto dipendesse dalle preoccupazioni del cardinale, per non infastidirlo, lo aiutò a rivestirsi e lo lasciò andare.
Il cardinale si avviò verso le sue stanze quando, improvvisamente, fu assalito dal dubbio. Il dubbio instillato dalla giovane popolana.
Si bloccò e, dopo un attimo di esitazione, tornò indietro, nascondendosi dietro una grossa tenda.
Perché Linda non gli aveva chiesto di rimanere a dormire con lei quella notte? Di solito lo faceva. E lo faceva con insistenza anche se il cardinale, pur cedendo, temeva di abbandonarsi al sonno.
Perché mai Linda non aveva fatto la solita richiesta?
Il suo comportamento dava adito a concreti sospetti. O meglio, le chiacchiere della popolana avevano reso oggetto di sospetto la ragazza. Rimase perciò nascosto dietro la tenda. Non dovette attendere molto. Dopo un po’ la vide uscire dal palazzo, incappucciata, e dirigersi repentinamente verso la stalla. Uscì dalla scuderia in groppa a un cavallo.
Il cardinale restò basito. Ripensò alle parole della contadina. Il suo animo fu stretto da un tormento interiore.
Dove andava Linda a quell'ora della notte? Quale era il senso di quella uscita notturna? Ma la donna non aveva detto che si sarebbero riunite l'indomani sera? Perciò, quella sera, che doveva fare? C’era forse un'altra riunione? La donna aveva capito male? Non vi era altra alternativa. Doveva seguire la fanciulla senza che se ne accorgesse.
Ad Anselmo Guia bastò seguire le orme dell'animale, rifugiandosi dietro ogni albero o qualsiasi altro riparo che trovava lungo il percorso. Conosceva la strada per arrivare al fiume Sabato.
La buia notte lo aiutò a non essere notato negli spostamenti. Arrivò trafelato al Ponte Leproso.
In lontananza vide Linda ricongiungersi a un altro gruppo di donne. Trovò riparo dietro la prima arcata del ponte.
Si sedette su di un masso e, avvolto dalla frescura della notte, assistette incredulo a ciò che sembrava di fatto un rito stregonesco.
Dieci donne, mano nella mano, giravano intorno a un agnello legato a un albero. Cantavano e pregavano.
Improvvisamente comparve un altro personaggio, con il capo coperto da un cappuccio e il corpo avvolto da un manto nero. Si fece strada tra le fanciulle, brandendo un grosso coltello.
Nell'altra mano stringeva un oggetto non ben visibile. Sembrava un medaglione.
Si avvicinò all'animale e, con un gesto repentino, lo sgozzò.
Nell'aria si liberarono canti e risa, che sovrastarono le urla strazianti del ruminante.
L'uomo accostò il medaglione al collo dell’agnello, bagnandolo del sangue della bestia.
Quando il corpo dell'ovino si afflosciò privo di vita, la sagoma incappucciata si rivolse alle donne festanti gridando: "La morte dell'agnello non sancisce la fine del nemico.
Solo il sacrificio di una vita umana lo sconfiggerà definitivamente. Il destino sceglierà per noi. E allora tutto tornerà come prima. La potenza del talismano non può finire in mani sbagliate. Saremo i custodi del medaglione. Lo proteggeremo con la nostra stessa vita". Queste furono le sue ultime parole, poi scomparve.
Il cardinale spalancò gli occhi per lo stupore. Dopodiché, a mani conserte, si mise a pregare in modo febbrile, sebbene la paura gli bloccasse le parole in gola.
Pregò come non aveva mai fatto in vita sua. Infine, si alzò incerto sulle gambe e, ancora sconvolto, si allontanò da quel luogo correndo verso l'episcopio.
Lungo la via del ritorno, affaticato e intirizzito dal freddo, con ancora impresso negli occhi l'orrore di quel rito, stramazzò al suolo.
La stanchezza delle ore d'amore e la tensione vissuta avevano fiaccato la sua resistenza.
Una fine pioggerellina bagnandolo lo ridestò dal mancamento. Lentamente riacquisì le forze. Si ricordò di quanto aveva visto.
Riprese il cammino, attraversando le strade immerse nella profondità della notte. Nella sua mente riaffiorò il pensiero di Linda.
L'aveva cresciuta, l'aveva amata! Prima come figlia, poi come donna.
Si era impossessato del suo corpo e lei, docile, lo aveva lasciato fare. Linda era parte di sé, roba sua, creatura sua, come era stata sua madre.
E ora... tradito anche da lei! E' Linda! E' Linda! Linda la traditrice! Linda la strega! I pensieri si accavallavano nella mente del cardinale: dolorosi pensieri e terribili presagi.
Rifletté sulla vendetta più adatta per punire quel tradimento. Era stato ingannato, infatuato dalla magia nera della strega. Non poteva perdonarglielo.
Alle prime luci dell'alba, risoluto, andò con rabbia verso le stanze dove era solito dirigersi con desiderio. Bussò ripetutamente. Nessuno aprì. Allora fu lui a spalancare la porta.
Una volta entrato chiamò Linda numerose volte, senza ottenere risposta. Lei non c'era. E per lui non ci sarebbe mai più stata.
Soffocando il passato e annientando l'immagine di Linda con decisione si diresse verso l'abitazione del giudice. Non doveva avere esitazioni.
Raccontò al magistrato le vicende di cui era stato atterrito spettatore.
L'esposizione fu così convincente che il magistrato, terminata la discussione, diede disposizione affinché le guardie cercassero Linda e l'arrestassero, senza eseguire altre indagini.
Linda fu catturata al mercato, mentre faceva la spesa. Sorpresa, chiese spiegazioni. Nessuna guardia parlò. Fu legata e bendata. Non oppose resistenza. Non aveva alcun timore.
In fondo, era la fantesca del cardinale e nessuno avrebbe osato torcerle un capello.
Fu condotta in una stanza, nelle segrete dell'episcopio. Nel freddo e buio sotterraneo fu slegata e le fu tolta la benda che le copriva gli occhi.
Si sedette su una panca in attesa che qualcuno le desse conto del sequestro, quando dall'ombra emerse una figura.
La giovane, vistone il volto, si tranquillizzò precipitandosi tra le braccia del prelato. "Meno male che sei qui, cominciavo ad aver paura" disse rivolgendosi a lui. Questi, però, la scacciò: "Mi hai tradito. Mi hai tradito!" urlava. "Sgualdrina!"
"Cosa dici, cosa ti prende? Non conosco uomo se non te!" replicò prendendogli le mani.
Il cardinale le ritrasse poi, con una spinta, la fece cadere in terra. "Perché? Cosa ti succede? Non ho mai avuto un altro uomo!" disse piangendo.
"Zitta! Silenzio! Non permetterti mai più di profanare il mio corpo consacrato o i miei abiti sacri con le tue sudice mani. Strega!"
Sentita quella parola, Linda ebbe un sussulto e provò un'angoscia profonda, come mai prima nella sua intera vita.
Sapeva benissimo con quanta crudeltà il cardinale si abbattesse sulle povere malcapitate.
Tutte le donne, anche se vittime di un leggero sospetto, ricevevano torture feroci, costrette spesso a false confessioni, pur di liberarsi dalle atroci sofferenze dell’Inquisizione.
La ragazza provò ancora a dichiarare la sua innocenza ma Guia, oramai insensibile a ogni supplica, ordinò al boia, appena giunto, di condurla nella stanza delle torture.
Linda per la violenta emozione svenne. Si risvegliò incatenata su di un tavolone di legno grezzo posto verticalmente.
Di fronte a lei sedeva il cardinale su una panca. Gli occhi la guardavano privi di espressione. Ordinò al boia di strapparle i vestiti e, appena la vide nuda, consegnò all'aguzzino un ferro, appena arroventato nel fuoco del camino.
Linda vide avvicinarsi il boia, chiuse gli occhi per lo spavento e sussultò di dolore quando il ferro le fu appoggiato sul pube. Stava nuovamente per perdere i sensi quando fu risvegliata da una secchiata di acqua fredda.
Incrociò nuovamente lo sguardo di Guia: questa volta esprimeva un piacere sadico e perverso. Provò a parlare ma il cardinale ordinò di imbavagliarla. Il boia le riempì la bocca di stracci.
Poi, arroventato nuovamente il ferro, lo fece scorrere lungo la pelle della vittima, fino ad affondarlo sul seno destro. Poi fu la volta dell'altro seno.
Linda avrebbe voluto urlare disperatamente ma la voce non usciva, bloccata dagli stracci.
Solo mugugni strozzati rivelavano la sofferenza patita. Iniziò a tremare mentre l'odore terrificante della carne bruciata le stordiva il cervello.
In preda ai peggiori tormenti reclinò il capo in avanti ma fu ancora una volta destata da un getto di acqua gelida.
Ansimava, respirando a fatica. Il cardinale, per nulla pago di quella dimostrazione, fece entrare altri due aguzzini.
Questi tenevano tra le mani delle tenaglie. Linda voleva supplicarli ma dalla bocca imbavagliata uscirono solo fiochi gemiti.
Al cenno del capo del prelato, i due carnefici si accanirono contro Linda senza pietà. Ne deturparono il giovane corpo, le mani curate, il volto gentile.
I lamenti strozzati della ragazza erano percepiti dal prelato come una dolce melodia. Bisognava infliggerle altro dolore, lo stesso che lui aveva provato la notte precedente, dopo averla vista nella sua reale veste.
La vittima si dimenava convulsamente, ferendosi i polsi e le caviglie incatenate, oramai il corpo era diventato una maschera di sangue. Ma gli aggressori imperterriti continuavano le loro atrocità.
Solo quando il corpo di Linda si accasciò il cardinale diede ordine ai due di fermarsi. "Sarai processata e messa al rogo. Strega!" le disse, schiaffeggiandola in volto per farla riprendere.
Ma lei restò immobile. Allora Guia provò a rinvenirla sbattendole la testa sul legno, senza un nulla di fatto.
"Strega svegliati, svegliati" disse ringhiando, dopo averla scossa con le mani. Ma lei non dava segni di vita.
Il cardinale adirato si rivolse ai due boia: "Idioti! Imbecilli! Cosa avete fatto? E' morta! E' morta!” disse infuriato. "Slegatela immediatamente!" proruppe perentorio. Gli aguzzini, impauriti, esaudirono il comando.
Il corpo di Linda ricadde al suolo con un tonfo. La faccia aveva assunto un colore livido, mentre gli occhi riversi mostravano le bianche sclere semiaperte.
Il cardinale le si inginocchiò vicino, chinò il capo su di lei. Rimase così alcuni minuti, come in preghiera, poi raccolse la testa, stringendola a sé, sporcandosi le candide vesti del sangue di lei ormai scuro e raggrumito.
Si girò furioso verso i boia: "Guardate cosa avete fatto! Guardate!" insistette, "E' morta! L'avete uccisa!"
Si portò verso il grande camino con il corpo di Linda tra le braccia e lo scaraventò nel fuoco.
"Sul rogo! Doveva bruciare sul rogo! Andate via voi altri, altrimenti farete la stessa fine".
I presenti scapparono lasciandolo solo.
Lui si sedette nuovamente pensieroso. Aveva perso la possibilità di un nuovo processo che potesse rendergli onore e prestigio presso la Curia Romana e il Papa, soddisfacendo il proprio piacere.
Doveva rimediare. Serviva, quindi, un'altra vittima da processare e condannare, bisognava trovarla quanto prima.
Linda non aveva amicizie conosciute che potessero essere accusate di complicità.
Viveva una vita estremamente appartata, non frequentava compagnie e usciva di rado.
Pensò allora alla popolana che l'aveva accusata, ma sarebbe stato imprudente coinvolgerla in un processo, tanto più perché era stata lei a sollevare la questione.
La donna avrebbe parlato rivelando a tutti come erano andate le cose.
Rimuginò tutta la notte. Poi, di buon’ora, si preparò e uscì coprendosi con un mantello scuro e un cappuccio che impedivano di riconoscerlo facilmente.
Aveva un'idea precisa. Andò verso il mercato. Lì avrebbe trovato molte contadine.
Tra di loro ci sarebbe stata certamente qualcuna che avrebbe fatto o detto qualcosa in accordo con in riti pagani che, come sapeva bene, si celebravano ancora nelle campagne.
Non importava che non avessero nulla a che fare con la stregoneria. Lui avrebbe fatto in modo che non ci fosse differenza. (continua)
comunicato n.172525
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