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Benevento, 26-06-2017 16:31 ____
Vincenzo Baldini, ordinario di Diritto Costituzionale, interviene nell'ipotizzato passaggio di Vincenzo Sguera dalla minoranza alla maggioranza
Nei confronti dell'eletto potrebbe anche esserci l'irrogazione di sanzioni interne al suo partito ma che non ne scalfiscono la liberta' di azione nell'esercizio del suo mandato istituzionale
Redazione
  

Vincenzo Baldini (foto), ordinario di Diritto Costituzionale, Dipartimento di Economia e Giurisprudenza dell'Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale, interviene, con sue considerazioni, sulla ipotesi del passaggio a Forza Italia del consigliere comunale eletto nelle liste di opposizione, Vincenzo Sguera.
Di seguito ecco quanto scrive.
"Un consigliere comunale eletto nelle file di un partito, Alleanza Popolare, che, nel corso della campagna elettorale, ha sostenuto un candidato sindaco (poi non eletto) annuncia l'abbandono del suo partito e, quindi, il transito verso un altro partito Forza Italia, di maggioranza, a sostegno del sindaco un tempo antico avversario.
Un esponente del partito "ripudiato" accusa il consigliere "transfuga" di trasformismo politico e di tradimento del mandato elettorale, bollando la scelta come gesto di cattiva politica.
Si potrà dire, del consigliere transfuga: "uno dei tanti", oppure, generalizzandosi l'accaduto: "E' il gioco della politica" o, ancora, "Ma di cosa ci doliamo? E' quasi la regola...".
Frasi più o meno consuete, che al di là dello specifico consenso o dissenso in relazione al caso di specie rivelano, come dato comune, una sostanziale sfiducia verso ciò che, senza enfasi, potremmo appellare in generale come l'etica dell'agire in politica e/o l’etica della democrazia.
Nondimeno, l’occasione giunge propizia per sviluppare alcune brevi riflessioni di tipo giuridico- costituzionale.
La rappresentanza politica risponde in generale "alla finalità di istituire un legame non fittizio tra cittadini ed organizzazione autoritaria" (Moretti, Sub articolo 67 Costituzione, in "Commentario breve alla Costituzione", a cura di Crisafulli, Paladin, Padova, 1990).
Nello specifico, il divieto di mandato imperativo per i parlamentari (articolo 67 Costituzione) configura, come è noto, una delle prerogative fondamentali della democrazia rappresentativa statale, che vale ad emancipare l'eletto in quanto "rappresentante della Nazione" dai vincoli di condotta derivanti dalla sua appartenenza ad un partito politico.
Di conseguenza, la violazione di alcuno di tali vincoli se legittima nei confronti dell'eletto l'irrogazione di sanzioni interne, secondo le norme del singolo statuto di gruppo (parlamentare) o di partito, non ne scalfisce la libertà di azione nell’esercizio del suo mandato istituzionale (Manzella, "Il parlamento", Bologna, 1991).
Il divieto di mandato imperativo, più in generale, configura una condizione ordinaria degli assetti istituzionali di democrazia rappresentativa che esalta il nesso di causalità necessaria tra la natura rappresentativa dell’organo (o degli organi, se il sistema di elezione diretta riguarda una pluralità di essi) ed il popolo sovrano.
La libertà di mandato, si ripete, è una condizione funzionale irretrattabile, sul piano procedimentale, per la realizzazione del Bene comune che l'Ente politico è chiamato a perseguire.
Pur se, come ha riconosciuto la giurisprudenza costituzionale, le attribuzioni dei consigli, a differenza di quelle spettanti alle Camere parlamentari, "non si esprimono a livello di sovranità" (ex plurimis, Corte costituzione sentenze numero 301/2007 e 279/2008) e la previsione costituzionale relativa al divieto di mandato imperativo ha riguardo unicamente al parlamentare (Corte costituazionale, sentenza numero 14/64), la medesima guarentigia opera anche per il consigliere regionale.
Quest'ultimo, lo sottolineava anche Livio Paladin, "rappresenta... l'intera Regione".
Pertanto, "l’originaria appartenenza dei componenti il Consiglio a questo o quel partito o gruppo elettorale non assume rilievo nell’ordinamento, a dispetto degli impegni firmati o verbalmente assunti da costoro all’atto della presentazione delle candidature o nella conseguente campagna elettorale; né le successive dimissioni o l'espulsione di qualche consigliere dal partito stesso valgono, da sole, a pregiudicarne la permanenza nell'ufficio" (Paladin, "Diritto regionale", VI edizione, Padova 1997).
Peraltro, siffatta garanzia trova un riferimento esplicito (una "clausola di stile" la definisce sempre Paladin…), nella gran parte delle Regioni, all'interno degli Statuti.
Ma lo stesso vale mutatis mutandis anche per i consiglieri comunali eletti a suffragio universale e diretto, quali rappresentati della collettività di base.
Un'indicazione contraria non si rinviene, infatti, nel complesso delle fonti legislative di riferimento (legge numero 81/93 ma, soprattutto, Dlgvo numero 267/2000 (Tuel) ed, anzi, la quasi totalità degli statuti comunali reca previsioni inerenti il divieto di mandato imperativo per i singoli consiglieri (esempio: articolo 12, Statuto Comune di Benevento.).
Del resto, per rimanere sul piano strettamente dogmatico, il divieto di mandato imperativo può intendersi come la logica conseguenza del fatto che i componenti di un consesso elettivo in quanto rappresentanti di un corpo politico (le comunità territoriali) non possono che avere riferimento agli interessi primari di quest'ultimo all'atto di assumere posizioni e decisioni di rilievo nello svolgimento del mandato istituzionale.
Dunque, anche ad intendere la rappresentanza politica in senso kelseniano (Allgemeine Statslehre, 1993) sulla falsariga cioè del mandato rappresentativo di natura privatistica, l'assenza di un vincolo di mandato realizza la condizione indispensabile per l’azione del rappresentante.
Sull'evidenza di quanto appena detto non vale la pena di insistere e/o dilungarsi, così che appare scontata la legittimità della scelta del consigliere comunale di fuoriuscire dal partito e dal gruppo consiliare di origine, motivandola con ragioni di natura politica che fanno ritenere insostenibile il prosieguo della militanza nelle file di quel partito.
Ma altrettanto comprensibile può apparire la doglianza di chi, con enfasi, denunci sul piano politico la realtà di un tradimento dell'elettorato.
Ciò che, a parere di chi scrive, appare soprattutto suggestivo, dal punto di vista scientifico, è cercare di prospettare ipotesi di soluzione, sul piano normativo, per arginare quanto meno gli eccessi della pratica di mobilità politico-partitica dei consiglieri comunali.
In tal senso, una prima "ipotesi di lavoro" è quella relativa alla positivizzazione di un obbligo generale di svolgimento delle cosiddette elezioni primarie all’interno di ciascun partito come metodo per la selezione dei propri candidati al consesso assembleare.
La diretta imputazione della scelta, non al singolo organo di partito ma, alla comunità degli iscritti al partito o comunque dei partecipanti alle primarie viene a tradursi, così, sul piano politico, un più stringente vincolo di connessione funzionale tra il consigliere eletto ed il partito di appartenenza.
Ciò pur senza condurre automaticamente al superamento del divieto di mandato imperativo, ingessandosi così la posizione del consigliere al perseguimento di interessi di partito (anche quando questi appaiono contrastare con quelli ritenuti, dallo stesso consigliere, preminenti nell'interesse della comunità locale) ne rende politicamente meno agevole la fuoriuscita dal partito di appartenenza.
Essa, infatti, certificherebbe un errore da parte del cosiddetto "popolo delle primarie", vale a dire della comunità dei cittadini che ha provveduto a selezionarne la candidatura.
D'altro verso, la stessa decisione potrebbe suonare come un monito anche verso la comunità della nuova forza politica a cui il consigliere avrebbe deciso di aderire, in vista di un eventuale rinnovo delle candidature.
Un seconda soluzione potrebbe farsi consistere nella previsione legislativa di decadenza automatica del consigliere comunale eletto nelle liste di un partito dopo la selezione attraverso le primarie, che nel corso della consiliatura decida di trasmigrare ad altro gruppo o forza politica presente in Assemblea.
Il legislatore, peraltro, potrebbe anche decidere di contenere la portata di siffatta sanzione al solo caso in cui la trasmigrazione dovesse avvenire da una forza di minoranza-opposizione ad altra di maggioranza.
La ragionevolezza della scelta limitativa, nella specie, sarebbe motivata in ragione della prospettiva di tutelare i necessari equilibri tra maggioranza ed opposizione all'interno dell'istituzione rappresentativa.
Tutto ciò postula, come passaggio ineludibile, l'approvazione di una legge generale sui partiti politici in cui, tra l'altro, il sistema delle elezioni primarie trovi (finalmente...) la necessaria disciplina di principio, eventualmente rinviandosi per la regolamentazione della parte procedimentale, ad altre fonti subordinate (regolamenti consiliari, statuti comunali, eccetera).
Mi sembra, però, che, allo stato, tale materia non risulti nell'agenda parlamentare, occupata soprattutto dal tema spinoso della legislazione elettorale.
Pertanto, per ora occorre continuare a fare affidamento su un'etica ed una cultura della politica in cui nel ceto dei rappresentanti all'interno delle istituzioni democratiche risalti soprattutto l'idea del servizio, più che quella della gestione del potere.
Va detto, a onor del vero, che non sempre e non immediatamente quest'idea si rende visibile anche all'occhio (un po' disincantato) del singolo elettore...".              

comunicato n.103564



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